Uno dei motivi per cui abbiamo dato vita a questo blog è la promozione di una nuova cultura della sicurezza sul lavoro.
Ma cosa significa realmente, sviluppare una nuova cultura?
Beh, per rispondere a questa domanda dobbiamo tener presente che non è un obiettivo né semplice, né raggiungibile in poco tempo, considerando che la cultura è frutto di una serie di "apprendimenti" che ogni popolo, ma anche ogni semplice gruppo di persone in qualsivoglia contesto sociale sviluppa con l'esperienza. E l'esperienza, si sa, richiede tempo per essere realizzata.
Il problema, quindi, sta nella disponibilità ad incanalare in una direzione nuova, diversa, le esperienze che possiamo tutti concretizzare all'interno della nostra società, o, nel caso specifico, nel mondo del lavoro.
Un primo passo importante che abbiamo registrato in questa direzione è l'acquisizione di una certa consapevolezza circa la natura comportamentale di molti infortuni sul lavoro, come ha sottolineato recentemente il neo Ministro del Welfare Sacconi.
Una consapevolezza, questa, che può aprire la strada ad una più ampia conoscenza degli innumerevoli fattori che influiscono sulla probabilità che un determinato pericolo si trasformi in un rischio tangibile di incidente se non, in definitiva, in un infortunio vero e proprio.
Prendiamo spunto quindi favorevolmente da una recente dichiarazione del segretario della Uil Luigi Angeletti che riportiamo integralmente:
“La battaglia per la sicurezza nei luoghi di lavoro non si sta combattendo con la consapevolezza adeguata. Questo è sicuro. Uno dei vizi degli italiani è pensare di far fronte sempre alle emergenze. Ma quando si hanno per decenni 1200-1300 morti l'anno, non c'è nessuna emergenza: è invece un tumore nel nostro mondo del lavoro". […] "Manca questa consapevolezza e così si approntano soluzioni un po’ curiose, mentre la cosa più importante è mettere a conoscenza milioni di persone che lavorano e anche gli imprenditori dei rischi che si corrono. Questo praticamente non lo si fa. Basta vedere che i morti sono quasi tutti giovani e immigrati, le due categorie che più sottovalutano il problema". "Le imprese trascurano i problemi della sicurezza", aggiunge Angeletti, "e hanno la tendenza a considerarli puri e semplici costi da ridurre o evitare. Bisogna sanzionare, non servono nuove leggi. Le abbiamo, bisogna solo applicarle. E quando non si applicano, bisogna dare punizioni esemplari".
Il problema della consapevolezza è in effetti il primo step che consente la nascita di nuove prospettive in tema di sicurezza. Uscire dalla triste relazione sicurezza=costo sarebbe già un passo avanti notevole che richiede, tuttavia, che non siano solo le aziende a farsi carico di tutto l’impegno economico richiesto dall’adeguamento delle proprie strutture (spesso vecchie, tra l’altro) . Cambiare infatti una cultura nel lavoro richiede che sia anche lo Stato a sostenere in primis la “catalizzazione” di questo processo, favorendo gli imprenditori nella realizzazione di migliorie strutturali dei propri impianti e del proprio ambiente fisico di lavoro.
Tuttavia, come sottolineiamo, se rinnovare la cultura del lavoro significa intervenire non solo sulla struttura di un’azienda ma anche nelle dinamiche comportamentali che ne caratterizzano la quotidianità del lavoro, ecco che l’intervento deve essere molto più profondo e radicale di un semplice incentivo economico.
La formazione, già a partire dal mondo della scuola, deve essere il primo passaggio.
Formazione significa conoscenza, e conoscenza è sinonimo della possibilità di esperire la realtà del mondo del lavoro con nuove nozioni, nuovi apprendimenti, e quindi, nuovi atteggiamenti nei confronti della sicurezza, elementi, questi, in grado di favorire una maggiore consapevolezza delle azioni messe in atto sul lavoro e di tutti i fattori che le influenzano.
Ad esempio, sapremmo spiegare come mai anche un macchinario di nuova generazione e dotato di tutti i dispositivi di sicurezza possibili, può ugualmente essere veicolo di infortuni?
Questo fenomeno ha un nome preciso e si chiama “sicurezza burocratica”.
Chi utilizza uno strumento ritenuto protetto delega ad esso tutti gli accorgimenti in grado di prevenire un infortunio, diminuendo sensibilmente la propria attenzione nello svolgimento delle azioni. Perché indossare una mascherina protettiva se lo strumento che si utilizza è dotato di sofisticati filtri che limitano le emissioni di sostanze nocive nell’aria? Perché diminuire la velocità durante la guida di un auto se quest’ultima è all’avanguardia nei sistemi di controllo della stabilità e della tenuta di strada?
L’eccessiva importanza attribuita alla sicurezza del macchinario determina una sensibile riduzione dell’attenzione cosciente attivata durante lo svolgimento di un compito, il che facilita la distrazione o, per meglio dire, lo spostamento delle proprie risorse attentive su altri compiti, determinando l’aumento della probabilità che, in caso di malfunzionamenti, il macchinario possa “produrre” un aumento del pericolo e, quindi del rischio di infortunio.
Questo, e molti altri ancora, è solo uno dei tanti esempi di informazione in grado di stimolare nuovi approcci e discussioni alla “questione sicurezza”.
Siamo sicuri, quindi, che sia “solo” un problema di punizioni esemplari da applicare?